L’attuale “privatizzazione” dell’aborto, che si sta realizzando attraverso la diffusione della Ru486 e la sua distribuzione fuori dall’ambiente ospedaliero (protetto), comporta alla maggioranza delle madri coinvolte il trovarsi a tu per tu con il bambino abortito, appena espulso dal proprio corpo.
A tu per tu con il bambino abortito
L’aborto spontaneo è un evento di comune esperienza e statisticamente abbastanza frequente durante la gravidanza, conseguenza della fragilità tipica della fase prenatale di vita dell’uomo e della delicata relazione intrauterina madre-figlio.
Le stime variano da Paese a Paese, con un tasso compreso tra il 10% ed il 15% di tutte le donne che hanno iniziato una gravidanza e sanno di essere in attesa. La stragrande maggioranza di questi aborti spontanei avvengono nelle prime settimane di gravidanza. A questi numeri vanno aggiunti gli aborti procurati, le cosiddette interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg), che – secondo le Relazioni ministeriali – ammontano in Italia a circa un quinto delle nascite e che riguardano quasi totalmente aborti entro la 13^ settimana. In tale contesto l’impiego dell’aborto chimico, ovvero la cosiddetta Ivg con metodo farmacologico, consentito attualmente in Italia fino alla nona settimana di gestazione, è in crescita, incidendo nelle varie regioni italiane con percentuali diverse sul totale delle Ivg, ma passando a livello nazionale dal 25% nel 2019 al 32% nel 2020.
Con tali premesse, si comprende facilmente che non è rara la circostanza per cui una donna, che subisca un aborto (spontaneo o procurato farmacologicamente) nelle prime settimane di gravidanza, sperimenti l’espulsione dell’embrione e degli annessi embrionali in ambiente extra-ospedaliero, presumibilmente a domicilio. Tale eventualità è destinata a crescere in frequenza nella misura in cui verrà dato corso al parere del Ministero della salute dell’agosto 2020 per l’estensione sia spaziale (fuori dall’ospedale) che temporale (da 7 a 9 settimane di amenorrea) della possibilità di ricorso al metodo farmacologico per l’Ivg.
La legge naturale impone – fin dalla preistoria – il dovere di seppellire i morti. La legge positiva si adegua.
Da un punto di vista etico, morale e religioso, vale a dire semplicemente umano, è comunemente accettato che «i cadaveri di embrioni o feti umani, volontariamente abortiti o non, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani», come dice l’Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Donum vitae – Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione.
Già la Circolare del Ministero della Sanità n. 500.2/4/270 del 16 marzo 1988 ricordava come «l’attuale regolamento di Polizia mortuaria prevede su richiesta dei genitori il seppellimento anche dei prodotti del concepimento abortivi di presunta età inferiore alle 20 settimane. Si ritiene che il seppellimento debba di regola avvenire anche in assenza di detta richiesta. Lo smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali seppur legittimo urta contro i principi dell’etica comune».
Tale giudizio è stato consolidato nel parere del Comitato nazionale di bioetica, Identità e statuto dell’embrione umano, del 22 giugno 1996 il quale all’unanimità esplicitava «il dovere morale di trattare l’embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani» riconoscendo che «l’embrione umano ha il diritto di essere trattato come una persona, ossia nel modo in cui conveniamo debbano essere trattati gli individui della nostra specie».
Coerentemente, come già accennato, la legge italiana consente la dignitosa sepoltura dei resti abortivi di qualsiasi età gestazionale, per cui in particolare i genitori posso chiedere la sepoltura anche di bambini concepiti da meno di 20 settimane: i regolamenti italiani di polizia mortuaria, pur con variazioni locali, si basano sul Dpr. 10/09/1990 n. 285, il quale nell’art. 7 dichiara: «Per i nati morti, ferme restando le disposizioni dell’art. 74 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238, sull’ordinamento dello stato civile, si seguono le disposizioni stabilite dagli articoli precedenti. Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina e che all’ufficiale di stato civile non siano stati dichiarati come nati morti, i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale. A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto».
Per elaborare il lutto
Purtroppo molti genitori vivono ancora oggi con rammarico e imbarazzo la (non) scelta compiuta sulla base di scarse informazioni e in un momento di intenso shock, magari dopo avere ricevuto rassicurazioni sul miglior esito del lutto in assenza di sepoltura e rito funebre, mentre è vero l’esatto contrario (9).
I regolamenti regionali
Alcuni regolamenti regionali hanno cercato nel tempo di prevenire queste situazioni garantendo una corretta informazione ai genitori, ultima in ordine cronologico ad intervenire è stata nel 2015 la regione Marche che, col regolamento regionale 16/11/2015, n. 7, intitolato Modifica al regolamento regionale 9 febbraio 2009, n. 3. Attività funebri e cimiteriali ai sensi dell’articolo 11 della legge regionale 1° febbraio 2005, n. 3, pubblicato sul B.U.R. n. 105 del 26/11/2015, ha disposto che “l’Asur, le Aziende ospedaliere e le strutture sanitarie private accreditate predispongono opuscoli informativi sulla possibilità di richiedere la sepoltura del feto o del prodotto abortivo e sulle disposizioni applicate in mancanza di tale richiesta. L’opuscolo, unitamente alla richiesta di consenso formale, è consegnato ai genitori, ai parenti o a chi per essi, al momento del ricovero presso la struttura sanitaria. Per la sepoltura al cimitero non è obbligatorio indicare sull’eventuale lapide il cognome di uno o di entrambi i genitori ma è possibile anche usare un nome di fantasia a cui, nella relativa sezione del registro cimiteriale, corrisponderà l’effettiva appartenenza anagrafica del prodotto del concepimento».
In altre Regioni si è pensato di risolvere il problema alla base disponendo il conferimento al cimitero da parte dell’azienda sanitaria in tutti i casi, antesignana in tal senso fu la regione Lombardia nel 2007 (salvo poi fare retromarcia nel 2019 per ragioni ideologiche di partito).
Un disegno di legge
A livello legislativo nazionale, è stato depositato al Senato nella scorsa legislatura il disegno di legge n. 2455 d’iniziativa dei senatori De Carlo, Rauti e Malan: Disposizioni in materia di sepoltura dei bambini non nati, consistente in un unico articolo volto a modificare il DPR n. 285 del 1990 (https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/54582.htm), che si prevede sarà ripresentato nella attuale legislatura, il cui testo è degno di nota e perciò è riportato integralmente.
Disposizioni in materia di sepoltura dei bambini non nati
Art. 1.
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All’articolo 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1990, n. 285, sono apportate le seguenti modificazioni:
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a) il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. Per la sepoltura dei feti abortiti di presunta età di gestazione dalle venti alle ventotto settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto ventotto settimane di età intrauterina e che all’ufficiale di stato civile non siano stati dichiarati come nati morti, i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale. Il trasporto può essere effettuato a cura del genitore, dei genitori o dei parenti fino al secondo grado con mezzi propri».
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b) al comma 4, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «A tal fine, in occasione di una procedura di revisione strumentale o farmacologica della cavità uterina, le unità sanitarie locali sono tenute a rendere note ai soggetti interessati, mediante opuscoli informativi o altro materiale appositamente redatto, le disposizioni, le facoltà e i termini di cui al presente articolo»;
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c) dopo il comma 4, è aggiunto, in fine, il seguente: «4-bis. In caso di aborto verificatosi presso una struttura sanitaria, anche quando l’età presunta del concepito è inferiore a ventotto settimane e pari o superiore a novanta giorni, qualora il genitore, i genitori o i parenti fino al secondo grado non provvedano o non lo richiedano entro quindici giorni, l’inumazione, la tumulazione o la cremazione è disposta, a spese dell’unità sanitaria locale competente per territorio, in un’area cimiteriale dedicata o nel campo di sepoltura dei bambini del territorio comunale in cui è ubicata la struttura sanitaria. A tali fini i feti sono riposti in una cassetta, secondo la data in cui è avvenuta la procedura di revisione strumentale o farmacologica della cavità uterina. Tale data è indicata sulla cassetta».
Questo testo presenta notevoli pregi ed un vistoso difetto che confligge con la giusta e fondata motivazione posta dai Senatori proponenti in premessa all’articolato: «Il presente disegno di legge è volto, pertanto, a colmare questa carenza, introducendo disposizioni che, con specifico riferimento ai bambini non nati di età inferiore a ventotto settimane, prevedono il riconoscimento del diritto alla sepoltura, non solo in presenza della formale richiesta dei genitori, ma anche laddove questa risulti mancante […] in coerenza con l’articolo 1, primo comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, sull’interruzione volontaria della gravidanza, nel quale si enuncia la tutela della vita umana, fin dal suo inizio, da parte dello Stato».
I pregi.
Intanto ha il grande merito di affrontare l’argomento, usando per di più l’espressione «bambini non nati» (benché sia dubbio che in fase di conversione in legge tale espressione possa permanere); entrando nel tecnico, cita esplicitamente i parenti fino al secondo grado (quindi l’altro genitore – il padre – ma anche i nonni e i fratelli del bambino abortito per qualunque causa, spontanea o volontaria) come soggetti autorizzati a chiedere la sepoltura. In secondo luogo, tale richiesta può essere avanzata alla struttura sanitaria non più entro le famose 24 ore previste dal DPR 285/90, bensì entro 15 giorni.
In terzo luogo, consente il trasporto al cimitero con mezzi propri, azzerando la spesa, talora spropositata e proibitiva per la famiglia, richiesta dalle agenzie di onoranze funebri.
Infine introduce l’obbligo di informativa da parte delle Asl verso i soggetti interessati (disposizione mutuata dal regolamento del 2015 della Regione Marche).
I difetti
L’aspetto negativo è nel limite indicato di 90 giorni di “età presunta del concepito”. Spieghiamo meglio: abbassare il limite per la sepoltura “d’ufficio” dalle attuali 20 settimane di gestazione a 90 giorni dal concepimento è sicuramente un merito, ma non si comprende perché limitarsi a questi 90 giorni. Perché lasciare ancora questa odiosa discriminazione per i “bambini non nati” di età inferiore? Oltretutto questo nuovo limite sembra proprio richiamare i famigerati 90 giorni per l’aborto volontario della legge 194/78.
90 giorni non è un riferimento clinico corretto poiché il tempo della gravidanza si misura in età gestazionale: settimane e giorni trascorsi dal primo giorno dell’ultima mestruazione (settimane di amenorrea). E’ noto che il concepimento avviene in media due settimane dopo questo termine, quindi parlare di età di concepimento equivale a spostare in avanti di due settimane il calcolo, in pratica quei 90 giorni non corrisponderebbero a 13 settimane di gravidanza, ma di fatto a 15 settimane.
In conclusione, considerato che la proposta è stata e sarà comunque attaccata ideologicamente con ogni pretesto, tanto vale che sia fatta per bene prevedendo la sepoltura di tutti i bambini non nati, di ogni età gestazionale, senza dimenticare magari il coinvolgimento delle associazioni di volontariato, vera e unica garanzia di umanizzazione delle procedure.
E se l’aborto avviene a domicilio?
Tutti questi interventi, per quanto importanti e meritori, tuttavia non tengono conto della fattispecie in esame, che abbiamo visto essere non trascurabile, ovverosia la gestione dei resti abortivi espulsi in ambiente extra-ospedaliero, altrimenti detto “aborto a domicilio”, sia che il fatto avvenga per causa involontaria, sia che venga procurato con la pillola abortiva.
Mettendo da parte il linguaggio tecnico, dalle testimonianze angosciate di tante madri (molte pubblicate anche su questa Rivista in diverse occasioni) sappiamo cosa accade.
Ci troviamo in una abitazione privata, ove la donna che ha avuto l’aborto, assistita o meno dal partner o da un parente/amico, forse nella stanza da bagno, ha espulso per via trans-vaginale il prodotto del concepimento dopo una serie di contrazioni forti e dolorose seguenti alla assunzione della pillola di prostaglandina. Si ritrova in un modo o nell’altro con quel materiale biologico, all’interno del quale è spesso riconoscibile il sacco amniotico e talora l’embrione vero e proprio (alcune indagini statistiche dicono che il riconoscimento avviene nella maggioranza dei casi).
Con ogni probabilità la madre non è preparata alla situazione. Anche se l’embrione non fosse riconoscibile, tuttavia è consapevole che esso è realmente “lì in mezzo da qualche parte”. Confusa, nell’incertezza potrebbe gettare il materiale nel water o nel sacchetto dei rifiuti. Poi cerca di recuperarlo e lo seppellisce in un vaso di terra o nel giardino di casa. Perché l’idea di scaricare nel wc il proprio piccolo (talmente piccolo da essere invisibile o quasi) o di gettarlo nell’immondizia, avendo pure il dubbio se sia meglio l’organico o il residuo, è qualcosa che ripugna l’umanità di chiunque. E chiunque, tanto più nei momenti di fragilità e sofferenza, ha invece bisogno di gesti di profonda umanità, quali sono per antonomasia la deposizione delle spoglie mortali e l’estremo saluto.
Nessuno ha spiegato per tempo a quella donna o a chi le è accanto, se ha la fortuna di avere qualcuno accanto, che può raccogliere i resti abortivi in un apposito contenitore, che può quindi contattare il medico legale della asl e farsi rilasciare il permesso per il trasporto al cimitero, una volta ottenuta idonea certificazione in seguito alla visita ginecologica che comunque dovrà effettuare.
Non ha ricevuto queste informazioni perché questi percorsi, per quanto possibili e legittimi non sono mai stati protocollati. Nessuno ha pensato che fosse giusto e opportuno farlo. Nessuno, finora.
Roberto Festa
Medico di famiglia specializzato in patologia clinica, presidente del Centro di aiuto alla vita di Loreto “l’Ascolto”, già consigliere nazionale della associazione Difendere la Vita con Maria