Il Presidente dell’OPA, Benedetto Rocchi, è intervenuto a Gazzada, al Tavolo organizzato dal Movimento per la Vita di Varese e di Trento “Voglio un Movimento spericolato!” che si è tenuto il 30 settembre e il 1° ottobre 2023.
Questo il testo della sua relazione.
1. La riflessione che qui viene proposta intende discostarsi, in una certa misura, da quanto normalmente viene affermato riguardo alla negatività dell’aborto come fenomeno sociale. Su quest’ultima, peraltro, c’è un sostanziale accordo: l’aborto volontario è un fenomeno negativo ed è un auspicio condiviso che il numero di aborti possa progressivamente diminuire, non solo in valore assoluto ma anche come incidenza relativa. Ciò su cui, viceversa, nell’arena pubblica il dibattito è ancora acceso, riguarda le politiche che si dovrebbero adottare per raggiungere tale obiettivo. Per questo metterò in discussione quella che oggi è, in Italia e in un grande numero di paesi, la principale politica adottata riguardo all’aborto e cioè la sua legalizzazione. Quali sono i costi economici e sociali che la collettività deve sostenere per il fatto che una legge rende legale l’aborto volontario per libera decisione della madre? La discussione farà riferimento alla situazione italiana ma una serie di aspetti generali che tratterò sono senz’atro estendibili ad altre realtà e contesti.
Questa prospettiva di analisi si concentra sulle conseguenze sociali della scelta di legalizzare l’aborto. Si tratta, con ogni evidenza, di argomento “secondo” rispetto al giudizio morale sull’inviolabilità della vita, che di per sè è sufficiente per mettere in discussione la legalizzazione dell’aborto.
Riflettere sulle conseguenze sociali di una scelta collettiva significa rimanere su un terreno argomentativo che non parte da premesse metafisiche, ad esempio riguardo alla dignità della persona umana prima della nascita. Queste, pur potendo essere oggetto di speculazione razionale, sono alla fine oggetto di una scelta che dipende da una visione della realtà che non può essere oggetto di controllo empirico. Lo studio delle conseguenze sociali, viceversa, è il normale approccio con cui vengono valutate le politiche in una società laica, sia ex ante quando le si definisce, sia ex post quando se ne vuole in qualche modo misurare gli effetti. Si tratta di un contributo necessario al dibattito, che nel caso dell’aborto legale è stato troppo spesso oscurato dalla pura e semplice (e sacrosanta) contrapposizione sui principi. Cercherò di mostrare, tuttavia, che la questione dei principi rimane sempre sullo sfondo e l’analisi delle conseguenze sociali può gettare luce sulla posta in gioco anche riguardo ad essi.
2. Per illustrare meglio il tipo di approccio che intendo seguire può essere utile ragionare sul presunto beneficio della legalizzazione dell’aborto. Uno degli argomenti principali dei difensori del “diritto” di aborto è che questo verrebbe praticato comunque anche qualora fosse illegale: negarne il diritto spingerebbe le donne a praticarlo in condizioni pericolose per la loro salute. La legalizzazione consentirebbe di ridurre i costi sociali generati dall’aborto clandestino. Si tratta perciò di ridurre, con la legalizzazione, le conseguenze avverse di un fenomeno sociale inevitabile. Questa era la principale motivazione indicata nella relazione al Parlamento (Camera dei Deputati) per la presentazione del DDL al momento della legalizzazione.
Che la soppressione dei bambini non ancora nati sia un fenomeno da sempre presente nella società, a prescindere dalla legalizzazione, è senz’altro vero. È però importante non dimenticare le sconsiderate speculazioni intorno a questo doloroso fenomeno ai tempi della approvazione della legge 194, quando circolavano cifre sulle donne morte che, ad uno sguardo oggettivo, non possono che risultare evidenti mistificazioni. Sui principali organi di stampa era infatti accreditata la cifra di oltre 2 milioni di aborti clandestini all’anno (all’epoca corrispondente ad una situazione in cui il 50% delle donne avrebbe dovuto abortire in media di 5,3 volte durante la vita riproduttiva), e si parlava di 20.000 donne morte all’anno, quando nel 1974 le donne morte in età fertile per qualsiasi causa erano state solo 9.914.
Per valutare se la legalizzazione ha portato il beneficio prospettato di una riduzione delle morti da aborto bisogna avere innanzitutto una quantificazione della mortalità femminile (per le coorti in età fertile); questa deve essere confrontata con il dato che si sarebbe potuto registrare con l’applicazione di una politica alternativa (il divieto di aborto). Ovviamente quello che nella valutazione empirica delle politiche si chiama controfattuale non è direttamente disponibile per un “esperimento sociale” come l’introduzione di una qualche legislazione. Possiamo solo costruirlo per approssimazione. Un’interessante analisi controfattuale (ma non è l’unica) è stata pubblicata qualche anno fa confrontando i dati di mortalità femminile di Inghilterra e Irlanda prima che quest’ultima legalizzasse l’aborto (Calhoun et al. 2013): la situazione risultava migliore nell’Irlanda che vietava l’aborto.
Bisognerebbe chiedersi inoltre se la legalizzazione faccia aumentare o viceversa diminuire il numero di aborti totali (legali più clandestini) rispetto al divieto. Anche qui ovviamente una rilevazione diretta è molto difficile ma alcune evidenze empiriche sembrano confermare che la legalizzazione di fatto aumenta il numero totale di aborti volontari. (Levine e Staiger, 2004; Antón et al. 2018). Una recente conferma di questa realtà, sia pure in senso contrario, è il caso del Texas dove, dopo l’introduzione di una regolamentazione che restringeva il diritto di aborto nel 2021, è stato osservato un incremento delle nascite rispetto alla media degli anni precedenti (Bell et al, 2023). Una stima rigorosa (Colombo, 1977) degli aborti clandestini in Italia prima della legalizzazione li quantificava in non più di 100.000 all’anno. Nei primi anni di applicazione della legge 194 gli aborti legali sono arrivati a superare quota 230.000 prima di cominciare a calare. Se ogni singolo aborto è una sconfitta, la legge 194 aumentando il numero totale di aborti ha senz’altro avuto un impatto netto sociale negativo.
Che una donna che decide di abortire volontariamente non muoia per le conseguenze sanitarie del suo gesto non possiamo che considerarlo un risultato positivo dal punto di vista sociale: invece di due muore soltanto una persona: il bambino. Tuttavia si tende a dimenticare il fatto che l’obiettivo di salvare la vita delle donne può essere perseguito anche vietando l’aborto volontario ed effettuando una efficace politica di sostegno alle donne e alle famiglie in difficoltà di fronte ad una gravidanza, affinchè non ricorrano all’aborto clandestino in condizioni pericolose per la salute. Del resto la stessa legge abortista, almeno a parole, ritiene opportuno scoraggiare le donne dalla scelta di abortire, con una qualche azione preventiva. Il controfattuale della legalizzazione dell’aborto, in una società giusta, non sarebbe un semplice divieto che getterebbe nuovamente le donne nelle braccia delle mammane, come una certa narrazione troppo spesso tende implicitamente a far credere. È bene non dimenticarlo perchè l’esperienza ormai pluridecennale della legge 194 ha mostrato chiaramente come anche in presenza della legalizzazione la clandestinità dell’aborto rimane. Circa dieci anni fa, su incarico del Ministero della Salute, l’Istat condusse un’analisi che portò a stimare circa 11.000 aborti clandestini all’anno, corrispondenti al 13% di tutte le gravidanze interrotte volontariamente nel 2015. Ed è bene non dimenticare che oggi, con le pillole cosiddette “del giorno dopo” e dei “cinque giorni dopo”, che nascondono una non trascurabile percentuale di cripto-aborti (Noia, 2023), il tasso di abortività che risulta dai dati ufficiali è sicuramente sottostimato. Una valutazione estremamente prudenziale della cripto-abortività della contraccezione di emergenza suggerisce che negli ultimi 10 anni la percentuale di gravidanze interrotte volontariamente non è realmente diminuita (Osservatorio Permanente sull’Aborto, 2023).
Inoltre anche per la diffusione (ormai oltre il 30% dei casi) della pillola RU486, somministrata con procedure sempre più de-ospedalizzate, nelle quali la donna vive l’aborto come un evento domestico, il confine tra contraccezione e aborto si va assottigliando sempre di più nel senso comune. Durante il Covid in paesi come il Regno Unito o gli USA si è diffusa, con esiti decisamente negativi dal punto di vista sanitario, la somministrazione domiciliare, con distribuzione postale della pillola abortiva. Non stupisce dunque che si diffondano pratiche di aborto “fai da te” (con l’uso di farmaci come il Cytotec, o tramite l’acquisito online della RU486) che sono anche formalmente al di fuori del perimetro della legge, soprattutto tra le donne molto giovani. Il tasso di abortività spontanea delle donne fino a 19 anni, secondo i dati ufficiali Istat, è sorprendentemente superiore a quella delle donne con età compresa tra i 20 e i 34 anni (Osservatorio Permanente sull’Aborto, 2013). Clandestinità e/o privatizzazione dell’aborto sono dunque presenti anche con la legalizzazione. Un’analisi seria delle conseguenze della legalizzazione da un punto di vista sociale dovrebbe chiedersi in che misura la liceità e la banalizzazione dell’aborto contrasti o viceversa generi questi comportamenti, con tutte le conseguenze avverse che essi portano.
3. Bisogna poi considerare i costi di implementazione della politica abortista. L’Osservatorio Permanente sull’Aborto ha recentemente pubblicato il secondo “Rapporto sui Costi e gli Effetti sulla Salute della Legge 194”. Secondo la serie storica ufficiale, periodicamente aggiornata dall’Istat nell’ambito del sistema di sorveglianza connesso alla legge, il numero totale di aborti legali eseguiti in Italia dal 1979 al 2020 ha raggiunto i 5.858.488. In questo periodo circa il 19% delle gravidanze sono state interrotte volontariamente, una percentuale che ha raggiunto un massimo pari al 26% nel 1984 per poi declinare, ma che nel 2020 superava ancora il 13%. Si tratta di un’incidenza comunque elevata che, come abbiamo visto, non tiene conto degli aborti clandestini che continuano ad essere effettuati, e dei cripto-aborti legati provocati dalle tecniche di contraccezione (spirale, pillole post-coitali). L’onere per le finanze pubbliche, espresso in euro 2020, è stato pari a 903 Euro per ogni singolo aborto, con una spesa media annua pari a 126 milioni di Euro.
Per apprezzare l’entità delle risorse utilizzate allo scopo di rendere completamente gratuito l’aborto legale, si può considerare il costo storico cumulato, corrispondente, per i periodo 1979 – 2020 a circa 5,3 miliardi di Euro. Dal punto di vista delle finanze pubbliche si tratta di una spesa tipicamente (nel caso dell’aborto, per definizione) improduttiva, tra l’altro realizzata in un periodo storico contrassegnato dal progressivo indebitamento dello Stato italiano. Un fondo destinato a impieghi produttivi nel quale fossero state versate cifre corrispondenti a quanto speso per il finanziamento della legge 194 oggi ammonterebbe a circa 12,6 miliardi di Euro, ipotizzando un rendimento pari agli interessi pagati dallo Stato italiano per il debito pubblico.
Il costo stimato di applicazione della legge 194 nel 2020 è stato pari a 59,6 milioni di Euro. Le risorse finanziarie allocate per gli aborti volontari sono considerevoli se si considerano le crescenti difficoltà del Sistema Sanitario Nazionale nel fornire i suoi servizi di cura alla popolazione. Le scelte di politica sanitaria degli ultimi anni hanno significativamente ridotto le risorse disponibili. La recente emergenza sanitaria legata alla diffusione del virus Covid19 ha mostrato con chiarezza la fragilità del nostro sistema sanitario. Un dato che mostra la riduzione del “perimetro” di cura e assistenza coperto dalla sanità pubblica è l’aumento registrato negli ultimi anni della percentuale di spesa sanitaria coperta direttamente dai privati, come ben documentato dai rapporti annuali pubblicati dall’Osservatorio sulla Povertà Sanitaria del Banco Farmaceutico. La crescente esigenza di coprire privatamente una parte delle spese sanitarie colpisce particolarmente le famiglie povere, che meno risorse possono destinare a questa necessità. I dati mostrano che i componenti delle famiglie in condizioni di povertà assoluta hanno potuto destinare alle spese per la loro salute circa 10 euro al mese sia nel 2019 che nel 2020, contro una spesa pro-capite media mensile nelle famiglie non povere di 65 e di 60 euro rispettivamente nel 2019 e nel 2020. Sulla base di questi dati è possibile stimare che nei due anni considerati i fondi impiegati per eseguire gli aborti volontari avrebbero potuto interamente colmare il gap di spesa sanitaria privata di circa 100.000 persone povere.
Un altro aspetto che è importante sottolineare della spesa per gli aborti in Italia è la crescita recente della componente provocata dalle complicazioni. Questa è sostanzialmente connessa alla progressiva sostituzione delle procedure chirurgiche con quelle chimiche per l’esecuzione dell’aborto. L’aborto farmacologico viene fortemente promosso dalle autorità sanitarie perchè meno costoso. Tuttavia, data la natura dei protocolli di esecuzione e l’architettura del sistema ufficiale di rilevazione degli aborti legali, la registrazione delle complicazioni è lacunosa, particolarmente nel caso dell’aborto farmacologico. Una stima corretta per tener conto di questi fattori fatta da OPA indica che la percentuale di spesa per le complicazioni ha raggiunto il 9,3% del totale nel 2020. Questo dato potrebbe essere ancora sottostimato, data l’incompletezza dei dati a disposizione, e tiene conto delle sole complicazioni immediate degli aborti volontari. Sfuggono ad una rilevazione sistematica complicazioni e conseguenze avverse per la salute delle donne che si manifestano nel lungo periodo, come una accresciuta tendenza alla abortività spontanea o al parto prematuro, problemi di sterilità e tutta la casistica connessa alla sindrome post-aborto, che comunque generano ulteriori costi per il sistema sanitario (oltre che sofferenze nelle donne che hanno deciso di abortire volontariamente).
4. L’abortività legale ha anche un effetto economico di lungo periodo per il suo impatto sulla natalità. Non c’è dubbio che ogni aborto ha un impatto diretto negativo sul saldo naturale della popolazione. Il calo demografico è figlio di una mentalità contraccettiva e di una cultura che non sa più vedere il valore della generazione. Ma, di fatto, l’aborto legale è stato negli ultimi 40 anni uno strumento fondamentale per tradurre in comportamenti effettivi tale mentalità: quasi 6 milioni di bambini, desiderati o meno che fossero, avrebbero potuto nascere e non sono nati perchè sono stato abortiti legalmente. Si sostiene che la scelta di non avere figli avviene prima e indipendentemente dalla scelta di abortire e che quindi non sarebbe la legalizzazione la vera causa del calo demografico. Abbiamo in realtà già visto in precedenza che la legalizzazione induce le donne, in una percentuale non trascurabile di casi, ad interrompere gravidanze che in presenza di un divieto non avrebbero interrotte. Ma se è vero che si abortisce perchè si mettere in atto le proprie scelte riproduttive allora bisogna riconoscere che la legalizzazione ha reso l’aborto volontario un mezzo di controllo delle nascite, al pari della contraccezione, in aperto contrasto con l’articolo 1 della legge 194. La legge ha dunque fallito nell’evitare uno dei suoi obiettivi: lo certifica l’Istituto Superiore di Sanità nel suo sito istituzionale (https://www.epicentro.iss.it/ivg/Relazione2014) quando afferma che l’aborto è “nella maggioranza dei casi una estrema ratio, in seguito al fallimento dei metodi impiegati per evitare la gravidanza”.
Quali sono gli impatti economici della denatalità? Non sarebbe serio speculare su come sarebbe la condizione economica del nostro paese se i 6 milioni di bambini abortiti legalmente fossero nati: la costruzione del controfattuale sarebbe inevitabilmente arbitraria. È certo però che tra le radici dello scarso sviluppo di lungo periodo di un’economia il fattore demografico è uno dei driver fondamentali. La propensione al risparmio e all’investimento, che sono un motore fondamentale di sviluppo, è connessa alla presenza di una prole alla quale si desidera trasmettere risorse e possibilità. L’invecchiamento della popolazione, conseguenza inevitabile del calo demografico, è anche in genere collegato ad un minore tasso di innovazione nel sistema economico. Rende inoltre progressivamente meno sostenibili i sistemi previdenziali e assistenziali, come stiamo sperimentando in questi anni, portando ad ulteriore indebitamento, con un effetto negativo sulla crescita.
5. Ma l’impatto sull’economia non esaurisce i costi sociali della legalizzazione dell’aborto. Per parlare di quello che è il costo sociale più grave è necessario considerare la seconda, fondamentale giustificazione del diritto di aborto: quella basata sull’autodeterminazione della donna. Si afferma che la madre ha diritto di scegliere riguardo all’esito della gravidanza perché questa è un evento della sua vita, sulla quale solo lei ha diritto di decidere. Non entro qui nel merito della questione (in ultima analisi filosofica) della personalità del bambino, che la giustificazione in base all’autodeterminazione respinge o occulta. Si tratta ovviamente di un punto dirimente, su cui si può e si deve continuare a discutere. Si possono tuttavia fare considerazioni sulle conseguenze sociali della scelta di lasciare alla donna una incondizionata libertà di porre fine alla gravidanza.
La decisione di aborto viene trasformata dalla legalizzazione in un problema/dilemma individuale che viene sciolto dalla madre confrontando (ex ante) i vantaggi, i pay-off per usare un gergo tecnico caro agli economisti, dei due esiti possibili: vita con il bambino contrapposta a vita senza il bambino. È bene sottolineare che la valutazione con la conseguente soluzione del dilemma è definita dalla legge, dal punto di vista sociale, come un problema la cui soluzione è “locale”: deve essere effettuata considerando le conseguenze per la sola donna, nonostante una scelta di questo tipo abbia in realtà conseguenze per molti altri soggetti (il padre, i fratelli, i nonni e il resto dei legami famigliari, per cominciare; ma si potrebbe allargare il quadro). Accettare questa logica in una situazione dove c’è in gioco la vita o la morte di qualcuno (l’esserci o il non esserci di una persona nella futura vita di chi decide) significa ammettere implicitamente che in particolari situazioni le vite delle persone possono essere ponderate: che è un altro modo per dire che è possibile valutare l’esistenza delle persone.
Ora questo è incompatibile con un’idea di società giusta. Possiamo definire quest’ultima come una comunità di persone il cui vivere insieme rappresenta un vantaggio per tutti nel raggiungere gli obiettivi individuali, nel vivere la propria vita. Questa è, in ultima analisi, l’unico ideale di società per cui vale impegnarsi, anche se, ovviamente, nessuna società reale lo raggiunge pienamente: ma è il solo fatto di perseguirlo collettivamente che rende la società una società e non un semplice aggregato umano, dove si confrontano interessi individuali e di gruppo. Come si potrebbe giudicare giusta una società che ammette che, per il bene della maggioranza, sia lecito escludere dai benefici del vivere in società determinate categorie di soggetti?
Se ammettiamo che il valore di due esistenze possa essere confrontato, allora ammettiamo che il valore sociale di ciascuna delle sue esistenze è limitato: non si potrebbe scegliere, infatti, tra due esistenze di valore infinito. Ne consegue che alcune esistenze hanno un valore sociale più alto di altre. Le conseguenze di questa assunzione implicita nel diritto di aborto sono facili da vedere. Basta pensare all’uso eugenetico dell’aborto stesso e delle tecniche procreatiche di riproduzione, dove si effettua una sistematica eliminazione degli embrioni “difettosi”.
Anche i casi, per ora isolati e clamorosi, ma in crescita, di infanticidio compassionevole “nel migliore interesse del bambino”, sono la conseguenza logica di questa concezione. Non a caso, e del tutto coerentemente, alcuni bioeticisti parlano di aborto post-nascita (Giubilini e Minerva, 2013). Se dunque il migliore interesse del bambino è morire (cioè non essere) allora la società in un certo senso sta meglio dopo la sua morte: è socialmente buono che quel bambino non sia più parte del corpo sociale. Ma quello che vale oggi per un bimbo gravemente malato potrebbe essere detto in futuro per qualsiasi persona con caratteristiche socialmente indesiderate. Lo vediamo già con l’eutanasia, i cui confini di applicazione tendono ad allargarsi irresistibilmente una volta che viene, più o meno surrettiziamente, resa legale: dai malati terminali, agli anziani soli, ai depressi di tutte le età. Anche in questo caso si incarica qualcuno (un tutore legale, un comitato etico, un giudice) di valutare un’esistenza rispetto ad un determinato standard definito socialmente e quindi, per definizione, in continua evoluzione. Questo è vero anche nel caso in cui a richiedere la valutazione sia la stessa persona che dovrebbe morire, come nel suicidio assistito: la legge assegna a qualcuno il potere di asseverare questa scelta con un giudizio, cioè valutando la vita di tale persona.
Si è spesso parlato del valore educativo delle leggi. Più di quaranta anni di aborto legale hanno sicuramente contribuito a formare una diversa mentalità nel popolo italiano, a modificare il senso comune rispetto alla vita nascente. Ciò che è legale è sempre socialmente legittimo: qualsiasi diritto individuale infatti, per essere reale deve avere un qualche riconoscimento sociale. Oggi vediamo meglio quale sia stato il costo sociale di questa (dis)educazione: permettere (cioè sancire legalmente) il giudizio sul valore di determinate esistenze (i bambini non ancora nati) mette in discussione l’esistenza stessa di una società giusta.
La mancata applicazione della prima parte della legge 194, che dovrebbe dare luogo a un sistema di supporto alle donne in difficoltà perchè non abortiscano, è la conseguenza logica, socialmente inevitabile, del fatto che viene presentata dalla legge come parte di diritto individuale a dare un valore e a scegliere in merito alla vita di un bambino. E’ illusorio combattere l’aborto come fenomeno sociale senza combattere strenuamente la sua legalizzazione. Si possono e si devono salvare quanti più bambini possibile, aiutando i loro genitori, in particolare le mamme: e il lavoro dei tanti volontari che lo fanno fa bene alla società non solo perché salva vite ma perché testimonia il retto modo di concepire una società giusta, nella quale qualsiasi vita umana, anche la più piccola e fragile, ha sempre un valore sociale infinito. Ma questo non può bastare: bisogna continuare combattere la radice del problema e mettere con insistenza in discussione proprio il diritto di scelta e la legge che lo sancisce. Sarebbe del tutto illogico rivendicare un efficace sostegno alle gravidanze difficili, cioè una politica che ha un evidente significato sociale (la vita di ciascuno è una responsabilità di tutti), come parte di una politica che definisce, viceversa, un diritto individuale.
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